Con l’ordinanza n. 14378 del 23 maggio 2024, la Suprema Corte di Cassazione, I Sezione Civile, si è pronunciata in materia di divorzio precisando che nessun assegno divorzile spetta all’ex coniuge che si licenzia e continua a lavorare in nero allo scopo di percepire il contributo.
Il caso
Dopo avere dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio tra du ex coniugi con sentenza non definitiva, il Tribunale di Venezia, nel 2022, rigettava in via definitiva la domanda di riconoscimento dell’assegno divorzile avanzata da entrambe le parti, disponendo a carico del marito il mantenimento del figlio maggiorenne ma non autosufficiente.
La corte d’appello di Venezia, a seguito dell’impugnazione della sentenza da parte della donna, rilevava un forte squilibrio tra i due nella situazione economico-patrimoniale poiché il marito percepiva uno stipendio mensile a differenza della ricorrente, oltre ad essere proprietario di un immobile e di alcuni terreni.
Pertanto, la Corte territoriale riconosceva un assegno divorzile in favore della donna a titolo principalmente assistenziale in quanto le eventuali entrate mensili della stessa derivanti da pulizie domestiche per conto terzi e/o di assistenza domiciliare agli anziani non erano, tra le altre cose, presumibilmente sufficienti a far fronte alle sue necessità primarie di vita.
La Sentenza n. 14378 del 23 maggio 2024
Avverso la decisione della Corte d’Appello, l’uomo presentava ricorso per Cassazione prospettando ben sei motivi di doglianza.
La Corte, esaminato il ricorso e dichiarati inammissibili il primo, il terzo ed il sesto, accoglieva il secondo ed il quarto motivo, analizzati congiuntamente nonché il quinto motivo, ritenuti fondati.
In particolare, con il secondo ed il quarto motivo di ricorso, veniva denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio per avere la Corte non adeguatamente valutato le risultanze delle indagini della Guardia di Finanza svolte durante il giudizio di primo grado, le quali davano conto del fatto che l’abitazione ed i terreni dell’uomo risultassero gravati da ipoteca volontaria, due ipoteche giudiziali ed un sequestro conservativo.
Per conseguenza, la Corte aveva omesso di vagliare, senza fornire adeguata motivazione, i dati reddituali e la situazioni economico-patrimoniali degli ex coniugi in giudizio, trascurando la situazione debitoria di particolare importanza del marito.
Con il quinto motivo di ricorso, invece, veniva denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in conseguenza del fatto che la donna si fosse deliberatamente licenziata subito dopo avere intrapreso la vertenza di separazione, svolgendo da allora attività lavorativa in nero, al fine di non consentire la reale quantificazione delle proprie entrate reddituali ed ottenere dapprima l’assegno di mantenimento e, successivamente, quello divorzile.
In particolare, la Corte, esaminati congiuntamente il secondo ed il quarto motivo di ricorso, li dichiarava fondati definendo l’esame della Corte territoriale incompleto.
Invero, la stessa, nella ricostruzione della situazione economico-patrimoniale dei soggetti avrebbe dovuto tenere conto non soltanto degli introiti di ciascuno derivanti dallo svolgimento dell’attività lavorativa, bensì anche delle eventuale titolarità di beni patrimoniali che rilevano sotto un profilo sia statico che dinamico.
Le iscrizioni pregiudiziali – ricostruendo il ragionamento degli Ermellini – non possono non incidere sulla valutazione in quanto gravano sugli immobili limitandone il valore nonché la possibilità di commercializzazione.
E proprio in questo senso la Corte territoriale ha errato in quanto, nell’ottica di una valutazione globale, non ha tenuto debitamente conto degli elementi patrimoniali negativi in capo all’uomo, gravato da una rilevante esposizione debitoria.
Per ciò che concerne, invece, il quinto motivo di ricorso, la Corte ha precisato che l’attribuzione dell’assegno divorzile nella sua componente assistenziale non trova giustificazione, di per sé, nello squilibrio o nel divario tra le condizioni reddituali delle parti all’epoca del divorzio, né nel peggioramento delle condizioni del coniuge richiedente l’assegno rispetto al tenore di vita matrimoniale, bensì nella mancanza di indipendenza o autosufficienza economica di uno dei coniugi, intesa come impossibilità di condurre con i propri mezzi un’esistenza autonoma e dignitosa.
Sul punto, la Corte territoriale avrebbe dovuto necessariamente verificare la mancanza di autosufficienza economica in capo alla beneficiaria, appurando se la stessa corrispondesse a un’impossibilità reale, piuttosto che procurata, di provvedere alla propria sussistenza secondo criteri di normalità.
Nell’ambito di questa indagine sarebbe stato necessario verificare gli elementi istruttori concernenti il rifiuto di un’occupazione lavorativa da parte della moglie nel corso del giudizio di divorzio, come già aveva fatto il giudice di prime cure, anche al fine di spiegare le ragioni che giustificavanola riforma della decisione del tribunale.
Sulla scorta di dette motivazioni, la Suprema Corte di Cassazione accoglieva i suesposti motivi di ricorso, dichiarando inammissibili gli atri.
La massima
“Non ha diritto all’assegno divorzile l’ex coniuge che, dopo la separazione, si licenzia per lavorare in nero allo scopo di incassare comunque il contributo”.
Studio Legale Romano
Via F. Pezzella, 24
81055 Santa Maria Capua Vetere (CE)
Phone: (0823) 519161 | Mail: segreteria@studioromanoassociato.it