Con l’ordinanza n. 30748 del 29 novembre 2024, la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, si è pronunciata in materia di licenziamento per giusta causa del dipendente assolto nell’ambito del procedimento penale a suo carico in ordine agli stessi fatti per cui venivano avviati procedimenti disciplinari, precisando che il giudicato penale non è opponibile a soggetti che non abbiano partecipato a tale processo.
Il caso
La Corte d’Appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Bologna, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento del dipendente alla luce del giudicato nel parallelo procedimento penale, recante l’assoluzione del lavoratore per insussistenza del fatto che spiegava effetti diretti ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 653, c.p.c. (efficacia della sentenza penale nel giudizio disciplinare).
In breve, secondo la Corte territoriale, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione del lavoratore precludeva una diversa valutazione in sede disciplinare.
Per conseguenza, dichiarato illegittimo il licenziamento, veniva disposta la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro con il riconoscimento di un’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità della retribuzione globale.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione la società, basato su 3 motivi.
L’ordinanza n. 30748 del 29 novembre 2024
In particolare, con il secondo motivo di ricorso, la società ricorrente censurava la sentenza nella parte in cui riteneva vincolante la statuizione penale di assoluzione in quanto, non essendosi la società costituita nel giudizio penale, la Corte avrebbe dovuto avrebbe dovuto esaminare autonomamente le prove raccolte in sede disciplinare, poiché il procedimento disciplinare e il processo penale hanno criteri e finalità diversi.
Gli Ermellini, dopo avere dichiarato inammissibile il primo motivo di ricorso che denunciava una violazione del contraddittorio, dichiarava il secondo motivo di ricorso fondato.
In breve, il Supremo Consesso ha precisato che il giudicato penale di assoluzione non è opponibile a soggetti che non abbiano partecipato al relativo processo.
Per conseguenza, la sentenza di assoluzione non ha efficacia di giudicato nel giudizio di impugnativa di una sanzione disciplinare irrogata nell’ambito di un rapporto di lavoro di diritto privato quando non ricorrra il presupposto della cosittuzione di parte civile da parte della società nel processo penale.
Per vero – afferma la Corte – la previsione di cui all’art. 653, c.p.c., rileva solo nell’ambito dei rapporti di pubbligo impiego.
Sulla scorta di tutto quanto riferito, la Corte accoglieva il secondo motivo di ricorso e dichiarava assorbito il terzo, avente ad oggetto il quantum dell’indennità risarcitoria riconosciuta dalla Corte territoriale
La massima
“la “sentenza penale” di assoluzione in seguito a dibattimento non ha efficacia di giudicato nel giudizio di impugnativa di una sanzione disciplinare irrogata nell’ambito di un rapporto di lavoro di diritto privato, nel caso in cui non ricorra, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., il presupposto della costituzione del datore di lavoro quale parte civile nel processo penale, “in quanto l’art. 653 comporta l’efficacia di giudicato di tale sentenza (quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso) solo relativamente ai rapporti di pubblico impiego, facendo riferimento al “giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità”. Questo comporta che il giudice del lavoro adito con impugnativa del licenziamento, ove pure irrogato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede penale, non è affatto obbligato a tener conto dell’accertamento contenuto nel giudicato di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni degli stessi del tutto svincolate dall’esito del procedimento penale”.
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