Con l’ordinanza n. 1021 del 16 gennaio 2025, la Suprema Corte di Cassazione, Sezione tributaria, si è pronunciata in materia di efficacia delle sentenze penali nel processo tributario, precisandone la portata applicativa anche ai casi in cui la sentenza è divenuta irrevocabile prima della operatività della nuova disciplina tributaria.
Il caso
A seguito di processo verbale di contestazione, l’Agenzia delle Entrate notificava ad un istituto di credito due avvisi di accertamento con i quali venivano accertati, relativamente all’anno 2005, un maggiore imponibile con conseguente maggiore IRES e una maggiore IRAP, con conseguente applicazione di interessi e sanzione pecuniaria nonché accessoria di interdizione dalla partecipazione a gare per l’affidamento di pubblici appalti e forniture per la durata di sei mesi.
Gli accertamenti si fondavano su operazioni finanziarie risalenti al 2005, sulla scorta della rilevanza penale dei comportamenti assunti in dette operazioni.
Medio tempore, in favore dell’amministratore delegato imputato, interveniva sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste”.
Avverso tali avvisi, l’istituto ricorreva separatamente innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, la quale rigettava i ricorsi e confermava la pretesa impositiva e sanzionatoria.
Dello stesso avviso la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia che rigettava gli appelli previa riunione dei medesimi.
Avvero tale ultima decisione, proponeva ricorso per Cassazione l’istituto, sulla base di 4 motivi.
L’ordinanza n. 1021 del 16 gennaio 2025
La Corte, esaminato il ricorso, dichiarava parzialmente fondato il primo motivo, accoglieva il secondo e dichiarava assorbiti i motivi nn. 3 e 4.
In particolare, con il primo motivo di ricorso, la ricorrente riteneva illegittima la sentenza della Commissione Regionale che aveva rigettato la doglianza afferente la nullità degli avvisi di accertamento poiché notificati tardivamente.
Sul punto, gli Ermellini, dopo avere ripercorso l’iter logico-giuridico di parte ricorrente, a mente del quale gli avvisi di accertamento sarebbero illegittimi in quanto adottati in virtù del c.d. raddoppio dei termini, istituto in forza del quale i termini previsti a pena di decadenza per l’accertamento tributario vengono raddoppiati laddove si sia in presa di una violazione fiscale che preveda un obbligo di denuncia.
Nel caso di specie, secondo il ragionamento seguito da parte ricorrente, non sussistendo gli elementi essenziali della fattispecie incriminatrice, individuata nella dichiarazione infedele ex art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, e mancando il superamento delle soglie di punibilità ivi previste, non sussisterebbe neanche il relativo obbligo di denuncia e, quindi, l’istituto del c.d. raddoppio dei termini sarebbe stato applicato senza il ricorrere del relativo presupposto, da ciò conseguendone l’illegittimità degli avvisi di accertamento in quanto emessi oltre i termini previsti per l’accertamento tributario.
Rispetto a un tale percorso argomentativo, la Corte ha posto l’attenzione sul profilo dirimente della questione, ovverosia la portata dell’obbligo di denuncia.
Sul punto la Corte ha chiarito che il raddoppio dei termini presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ma non anche la sua effettiva presentazione, pertanto, ai fini dell’obbligo di denuncia, rileva la sussistenza in astratto del reato, a nulla rilevando l’effettività della denuncia né l’eventuale e successivo accertamento che riscontri in concreto l’esistenza del reato.
Per conseguenza, la Corte rigettava la domanda di parte ricorrente in ordine all’effettiva ricorrenza del reato di dichiarazione infedele.
Per contro, la Corte accoglieva il medesimo ricorso nella parte in cui veniva censurata la Corte territoriale di avere applicato indistintamente il raddoppio del termine sia per l’avviso IRES che per quello IRAP.
Nel merito, Gli Ermellini hanno chiarito che il raddoppio dei termini non può trovare applicazione per l’IRAP poiché le violazioni delle relative disposizioni, semplicemente, non sono presidiate da sanzioni penali.
Con il secondo motivo di ricorso, invece, la ricorrente deduceva violazione e falsa applicazione dell’art. 14, co. 4 bis, L. 537/1993 in quanto per “costi da reato” dovrebbero intendersi solo quei costi che si pongano in un rapporto causale diretto con la realizzazione dell’attività illecita; pertanto, la Commissione avrebbe erroneamente ritenuto “costi da reato” quelli meramente “riconducibili” al reato.
Presupposto necessario e dirimente, per la Corte, è l’intervenuta sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste” ad essere dirimente.
Per vero, gli Ermellini hanno precisato che l’art. 21-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000, introdotto dal D.Lgs. n. 87 del 2024, che riconosce efficacia di giudicato del processo tributario alla sentenza penale dibattimentale irrevocabile di assoluzione, è applicabile, quale ius superveniens, anche ai casi in cui detta sentenza è divenuta irrevocabile prima della operatività di detto articolo e, alla data della sua entrata in vigore, risulta ancora pendente il giudizio di cassazione contro la sentenza tributaria d’appello che ha condannato il contribuente in relazione ai medesimi fatti, rilevanti penalmente, dai quali egli è stato irrevocabilmente assolto, con una delle formule di merito previste dal codice di rito penale.
Pertanto, essendo che nel caso di specie i medesimi fatti per cui vi è stato accertamento erano gli stessi rispetto ai quali è intervenuta sentenza di assoluzione con formula piena, la Corte ha ritenuto che la sentenza penale abbia efficacia nel procedimento tributario e, per conseguenza, non sussistendo il fatto, manca il presupposto impositivo delle maggiori imposte accertate.
Sulla scorta di dette motivazioni, la Corte accoglieva parzialmente il primo motivo di ricorso, accoglieva il secondo e dichiarava assorbiti i motivi nn. 3 e 4.
La massima
“L’art. 21-bis d.lg. n. 74 del 2000, introdotto dal d.lg. n. 87 del 2024, che riconosce efficacia di giudicato del processo tributario alla sentenza penale dibattimentale irrevocabile di assoluzione, è applicabile, anche ai casi in cui detta sentenza è divenuta irrevocabile prima della operatività di detto articolo e, alla data della sua entrata in vigore, risulta ancora pendente in giudizio di cassazione contro la sentenza tributaria d’appello che ha condannato il contribuente in relazione ai medesimi fatti, rilevanti penalmente, dai quali egli è stato irrevocabilmente assolto, con una delle formule di merito previste dal codice di rito penale (perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso)”.
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