Con l’ordinanza n. 17724 del 27 giugno 2024, la Suprema Corte di Cassazione, II Sezione Civile, si è pronunciata in materia di possesso ad usucapionem, precisano che il convivente non può usucapire l’appartamento se l’altro è privo dell’animus possidendi poiché la posizione di detenzione qualificata non muta fino a quando prosegue lo status di coabitazione della coppia.
Il Caso
Una coppia convivente citava innanzi al Tribunale di Roma una s.r.l. (nella cui composizione sociale uno dei conviventi assumeva il ruolo di socio consigliere di amministrazione) invocando la declaratoria di acquisto per usucapione della proprietà di un’unità immobiliare sita nel Condominio.
Nella contumacia della s.r.l., interveniva in giudizio il Condominio, il quale affermava di avere azionato in danno della società una procedura esecutiva diretta al recupero degli oneri condominiali non pagati.
Altresì, interveniva in giudizio un Istituto di credito, il quale rilevava lo status di socio e consigliere di uno dei due conviventi il quale, tra l’altro, si era costituito garante della società citata in relazione alla concessione del mutuo in favore della s.r.l., affermatasi unica proprietaria dell’appartamento in sede di perfezionamento del finanziamento.
Il Tribunale di Roma respingeva la domanda attorea e la Corte d’Appello rigettava il gravame presentato dai conviventi soccombenti.
In particolare, la Corte di merito, rilevato lo status di socio, consigliere e garante della s.r.l., riteneva che il medesimo avesse riconosciuto la proprietà del cespite in capo alla società, così escludendosi alla radice la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’usucapione: l’animus possidendi.
Da ultimo, la Corte di merito riteneva che la posizione dell’altra convivente, estranea alla composizione sociale della s.r.l., non potesse comunque essere scissa da quella dell’altra metà della coppia, in assenza di deduzione e prova circa l’utilizzo distinto del cespite.
I conviventi ricorrevano, dunque, proponevano ricorso per Cassazione.
L’Ordinanza n. 17724 del 27 giugno 2024
I ricorrenti, con ben cinque motivi di ricorso, denunciavano quanto segue:
1) nullità della sentenza in quanto la Corte distrettuale aveva mancato di esprimersi sull’eccezione relativa alla carenza di legittimazione in capo ad una società di gestione e recupero dei crediti deteriorati e, conseguentemente, in capo alla rappresentante processuale, sulla scorta del fatto che agli atti non vi era prova né traccia del contratto di cessione nonché dell’avviso in G.U.;
2) errore nella sentenza nella parte in cui non ha riconosciuto sussistente l’animus possidendi sul solo presupposto della qualifica di socio del convivente nonché della firma del medesimo in calce al contratto di mutuo, il cui intento era garantire il prestito e non il riconoscimento della piena proprietà dell’appartamento in capo alla s.r.l.;
3) nullità della sentenza in merito al riconoscimento della proprietà immobiliare in capo alla società, desunta dalla mera partecipazione del convivente, socio e consigliere, all’atto pubblico di mutuo fondiario;
4) errore nella sentenza nella parte i cui si limita d affermare la mera qualità di convivente in regime di separazione di beni, al solo scopo di escludere in capo alla stessa il possesso ad usucapionem, nonostante l’estraneità alle vicende societarie;
5) nullità della sentenza per carenza di motivazione in ordine al mancato riconoscimento del compossesso sull’immobile in capo all’altra convivente.
Gli Ermellini, accolto il primo motivo di ricorso, analizzava congiuntamente i motivi nn. 2 e 3, nonché i motivi nn. 4 e 5, ritenendoli destituiti di fondamento.
In particolare, con riguardo al secondo ed al terzo motivo, la Corte non ha ritenuto sussistente il vizio denunciato, ritenendo indubitabile che la sottoscrizione del contratto di mutuo nel quale la s.r.l. si dichiarava unica proprietaria dell’immobile importasse il riconoscimento di detta qualità da parte del convivente socio, consigliere e garante.
In merito al quarto ed al quinto motivo di ricorso, anch’essi analizzati congiuntamente, il Supremo Consesso ha precisato che il compossesso non consiste nell’esercizio, solidaristico e comunitario, di un’unica signoria, bensì la situazione della confluenza su di una stessa cosa di poteri plurimi, corrispondenti, nella loro estrinsecazione, ad altrettanti distinti diritti, di identico o di differente tipo. Per conseguenza, il convivente “more uxorio” del soggetto detentore dell’immobile in cui risiede la famiglia, in ragione di tale sola convivenza, pur qualificata dalla stabilità della relazione e protetta dall’ordinamento, non è compossessore con quello, ma detentore autonomo dell’immobile stesso, che, dunque, non può usucapire.
La Massima
“Se un soggetto è privo dell’animus possidendi, ai fini della pretesa usucapione, non può ritenersi differente la posizione del convivente, comunque partito da una posizione di detenzione qualificata, esercitabile finché duri lo stato di convivenza”.
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